È successo che ci siamo incontrati

È successo che ci siamo incontrati. Così, come in un cono di luce nel buio.

Io la abbracciavo e le dicevo semplicemente “com’è successo che siamo stati così lontani”?

E lei sentiva lo stesso, anche se non era una situazione così reale da ammettere risposte.

Poi, ho visto il mio gatto e mi sono chiesto come vedrebbe un altro gatto, ma di razza, nella stessa stanza.

Insomma, uno dei soliti lampi di lucidità solitaria.

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Nel minimo dettaglio

Mi ritrovo, nel corso di una vicenda ingarbugliata, nella tua stanza. Non ho i miei bagagli e indosso solo una maglietta. Un cuscino è per terra, accanto al lato sinistro del letto, quello della finestra; lo sollevo e lo odoro, così per prova, ma niente, nessun ricordo si innesca. Sento la porta aprirsi, una luce si allunga sul pavimento del corridoio; sei tu, e sai che ci sono. Io ti chiamo per nome; ti avverto, imbarazzato, che sono mezzo nudo. Indossi una canottiera e hai le gambe scoperte quando ti siedi accanto a me su un divano basso che non è il tuo. Sono anni che non ci vediamo, anche nel sogno. Mi dici qualcosa di tuo padre, che ha preso uno studio lì vicino. E nel farlo mi permetti di accucciarmi. Mi parli da vicino; qualche lentiggine estiva mi commuove; sei tu, nei dettagli, perfino lo sguardo; perfino la compattezza del tuo fianco, della spalla a cui mi appoggio e la pienezza del seno sinistro che percepisco nel contatto.

Pensavo di non ricordare com’eri, ed eccoti, nel minimo dettaglio.

Cara

Cara, la più bella canzone d’amore mai scritta. Così l’hai definita una volta. E sentirla per caso, mi riporta a te e alle tue parole recenti.

Io lo so, la durezza che mi hai usato non era da te; era l’unica via di salvezza e hai fatto bene a percorrerla. Non ero in grado, non ero pronto a nulla.

Le ferite e i lividi, guarendo lasciano dei segni che ci caratterizzano; sapessi come sono affezionato a quelli che mi hai lasciato tu.

Il mio più grande rimorso, è di averti dato il tormento. Con le parole (fiumi insopportabili di parole scritte) e con i fatti, a volte perfino spaventandoti. Come se non fosse stato abbastanza per te dovermi perdere. Spero che tu mi abbia perdonato per questi lividi.

Che modo di comunicare, questo: incerto e complice; ma prudente, secondo la nostra peggiore abitudine. Noi due in combutta, tu che leggi le mie parole, io che infrango la promessa di non leggere le tue.

Avrei voluto scriverti per tuo padre. È stata la prima volta, dopo tanto tempo, che ho pensato di farlo. Ho scelto di no, ma mi è costato. Per lui, ti bacio.

Grazie, per le tue righe. Mi hanno scaldato con un calore dimenticato.

Non per nostalgia

Seduta, con gli occhi bassi, chissà cosa pensi, in quella foto. Quale senso prevale o se tutto attutisce semplicemente e sospende il presente, come in me che la guardo. Senza più salti del cuore, che però rallenta e si sente. Solo qualche ricordo ha la forza per venire a galla, gli altri in stallo a mezz’acqua. Non per nostalgia ma per inattesa necessità, mi domando il senso.

un occhio

Torno a leggere, di rado, ma non dovrei. Come non dovevo aprire le foto del rulletto.

Soprattutto, non dovevo ingrandire il tuo occhio, celato fra le tue dita.

Era anni fa, l’inizio; una vita, due vite diverse.

Ma un occhio guarda – uguale – un uguale languore.

Forse quello che mi aggiungevi

Se tu avessi pensato di venire, io non mi sarei tirato indietro. Sarei venuto così, come si accende una sigaretta dopo anni; sarei venuto per vedere cosa scoperchia vederti.

Però – si scrive reperibile ma si legge guardia – non sei venuta. C’è come un patto, fra noi: se deve succedere di incontrarsi, che avvenga per caso; che non si sappia se uno, nessuno o magari entrambi lo desideravano.

Mi chiedo se ci hai pensato, per un attimo: venire così, ad una cosa senza nome come si va a una birra. Se ti è venuta voglia di fare finta di niente ed esserci. A me sì, è venuta voglia che questo avvenisse.

L’essersi sfiorati, essere stati sugli stessi messaggi, con la stessa gente che ci vedeva allora, avere sentito di te basta a scavarmi, a scoprire strati profondi; e fatico a leggerli, ad orientarmici, da quando non li frequento più con assiduità.

Non posso più dire che mi manchi. Però qualcosa di sicuro manca; forse, quello che mi aggiungevi.

Tu o una parte di te

Sei tornata, in questo giorno. Seduti a un tavolo – tu, io e una terza persona – raccontavi di avere recitato nel finale di un film di Ermanno Olmi… Niente di meno; io non lo so la mia mente insonnolita dove vada a pescare certe idee. Ma c’eri, c’era la tua bellezza lievemente incompleta e la tua espressione migliore, un po’ increspata per via degli occhi socchiusi. Io già pensavo di cercare la scena su internet, invece di godermi la tua presenza, che è sempre più rara. Solo un sogno, ma io lo so che ci sei, tu o una parte di te.

La sabbia

Una nota intonata, lo scatto di un ingranaggio; il presente e la memoria che si allineano.

Tutto il resto si rivela abbozzato e sospinto; io per primo lo sono, e quello che muovo.

Un sorriso, una frase semplice, un bicchiere d’acqua. Qualcosa che torna a posto, o che ne prende uno; un po’ di dignità e di coraggio senza parole.

E io da che parte sto, chi apprezzo davvero e chi sostengo, di chi mi chiedo i pensieri.

Sei stata brava, so, dai pochi dettagli prudentemente concessi. Ma è una prudenza inutile; io lo dimentico e lo soffoco ma tu sei il battito, la forma degli occhi, il profumo di casa, la paura del buio.

E la sabbia non è mai profonda abbastanza o il collo mai abbastanza allungato.

infinito presente

 

-Sarà stato durante il ginnasio, studiando la grammatica greca – dice – non ti ricordi? Fatto sta che ti è venuto fuori di dirmi: tu sei l’infinito presente.

-Ma no, figurati se mi ricordo, mamma – rispondo – è una cosa così sciocca, quasi una battuta!

E dentro di me una fitta, piccola piccola. Penso che vent’anni fa non lo sapevo che quella frase era perfetta per te. Penso che vorrei avertela detta; penso che ti sarebbe piaciuto sentirtela dire, Pezzi di me.